Chi fa il mio mestiere sa che la capacità di adattamento al contesto è un importante indicatore di salute e di qualità della vita.
Differentemente da quanto è diffuso nel senso comune, una certa forma di coerenza – quella forma di incorruttibilità dello spirito che ci fa dire di una persona che è “tutta d’un pezzo”- non è un pregio da esibire. 
Penso che la capacità di mettere in gioco parti di noi differenti in contesti differenti sia una preziosa forma di intelligenza e competenza sociale.
È importante ricordarlo quando ci viene voglia di spiegare a qualcuno come funzioniamo.
Il caso del famigerato “sono fatto/a così” che infesta le relazioni più conflittuali e che fa fuori qualunque forma di variabilità.  Spiegare come siamo fatti vuol dire pretendere che l’altro si comporti di conseguenza, in altri termini vuol dire obbligare l’altro ad essere fatto, a sua volta, in un certo modo. 
È opportuno quindi mettere in discussione tutte le proprie autodiagnosi (sono pigro, sono timida, sono solare, estroverso, per citare quelli più di moda). Immaginiamo che queste formulazioni venissero da fuori. Immaginiamo che dalla tenera età ci venga detto che siamo fatti in un certo modo. Cosa succede se facciamo un’esperienza di noi stessi differente? Cosa ne facciamo di questa differenza?
Tra le più efficaci diagnosi sociali abbiamo l’identità di genere.
Gli studi di genere hanno trattato molto l’argomento e non è obiettivo di questo scritto fare una disamina sulle proposte più recenti. Indubbiamente si è molto scritto dell’identità femminile ed il ruolo delle donne nella società. È avvenuto per la rilevanza sociopolitica di questo tema dagli anni 60 – 70 in poi.
Simone de Beauvoir nel 1949- ne “Il secondo sesso” scriveva “(…) Un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio.” Aveva ragione. Oggi possiamo dire lo stesso?
Decisamente no. Esiste una questione maschile? E se esiste, che forma assume negli studi di psicoterapia?
“Gli uomini non ballano. Lavorano, bevono, hanno la schiena a pezzi ma non ballano!”(film In & Out, 1997).
Erano queste le parole del test di virilità  effettuato dal protagonista del film. Rimandano ad una rappresentazione del vero uomo come brusco, aggressivo, anaffettivo, spericolato, spavaldo, sgraziato. Il vero uomo non ha bisogno di niente, è indipendente economicamente ed affettivamente, realizzato nel lavoro e forte. L’uomo vero è l’uomo forte.
Gli uomini hanno goduto, si fa per dire,  dell’identificazione tra Vir (forza dal latino) e Homo fino ad oggi, ma identità maschile e virilità non sono sinonimi.
Di questa differenza fanno esperienza molti uomini. Alcuni di questi provano vergogna e si sentono mancanti di qualcosa, confusi e disorientati. La difficoltà di mentalizzare questa differenza, nominarla e darle senso, può trasformarsi in angoscia e sofferenza.
Fin da bambini gli uomini sono educati ad una massiccia inibizione emozionale. La rinuncia a quest’area dell’esperienza umana impoverisce in modo disarmante gli uomini che non hanno saputo o non sono riusciti a trasgedire.La questione problematica risiede nell’impossibilità di realizzare questo proposito. Continuiamo sempre a provare emozioni, per quanto possano essere tenaci i nostri sforzi inibitori. Ciò che avviene, piuttosto, è la delegittimazione di quello che proviamo. In altri termini le emozioni ci sono ma come ospiti indesiderati.
Difficoltà nelle relazioni di coppia e nell’esperienza di genitore, difficoltà e talvolta impossibilità di vivere la sessualità in modo soddisfacente, ansia costante legata ad altissime attese di performance nei propri contesti di vita. Sono solo alcune delle questioni che gli uomini portano in terapia.
Frequentemente arrivano in studio portando il desiderio di ricongiungersi, finalmente, a questo modello maschile fatto di sicurezza e invulnerabilità. La sessualità è spesso parte importante del lavoro. La cultura machista di cui stiamo parlando rappresenta la sessualità come luogo dell’esercizio del potere sociale, luogo di conquista. 
Dopo la conquista non resta nulla perché l’obiettivo è raggiunto. Come una sorta di maledizione, l’unica cosa che si può fare è ricominciare tutto dall’inizio, così per sempre. 
Può succedere che ogni qualvolta ci si leghi affettivamente a qualcuno, il desiderio sessuale scompaia da quel rapporto per essere trasferito altrove (altre relazioni, web, sesso a pagamento).
Il sesso per via della predatorietà ad esso legata, diviene minaccia del legame affettivo e ne viene espulso.  Forse è importante specificare che alcuni di questi fenomeni sono trasversali agli uomini e alle donne, tuttavia credo che la storia e i simboli depositati nell’identità maschile rendono queste questioni più vicine al vissuto di molti uomini.
Parlo di uomini che sentono il peso di un obbligo sociale alla sessualità agita. Sottrarsi ad una avance vuol dire esporsi allo scherno e al giudizio. Spesso non incarnare l’uomo virile della cultura machista diviene motivo sufficiente per mettere in discussione il proprio orientamento sessuale, pur non avendo mai provato un sentimento amoroso o desiderio sessuale per una persona dello stesso sesso.
Credo sia importante per queste persone recuperare una legittimazione del proprio modo di interpretare il maschile, integrando progressivamente la forza dei sentimenti e ridimensionando il mito dell’uomo forte. 

Donatella Girardi

Psicologa Clinica e Psicoterapeuta
ad orientamento Psicoanalitico

Posted by:ComeQuando appunti di psicoanalisi

ComeQuando è un progetto editoriale nato dall'incontro di tre colleghe psicoterapeute che desiderano portare la psicoanalisi fuori dallo studio, demitizzarla e avvicinarla ai contesti di vita. Renderla utile e non solo bella. #ComeQuando

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